Il codice etico del Public Historian

De Cliomatica - Digital History
Tempo di lettura 28 minuti - per Alfonso Ferraro


Public History e Public Historian

La Public History è una disciplina con oltre trent’anni di vita negli Stati Uniti, che promuove una nuova metodologia e un nuovo approccio della pratica storica finalizzato ad avvicinare alla storia i diversi pubblici e avviare progetti partecipativi di scrittura della storia[1]. Serge Noiret, esperto del settore e presidente della Associazione Italiana di Public History, afferma:

«La disciplina della Public History mira a condividere un “senso pubblico” della storia per una società migliore e consapevole del proprio passato. In termini più pratici, si può aggiungere che la Public History apre il mercato del lavoro per gli storici ed è una disciplina che offre di lavorare con il passato al di fuori dall’accademia. Questi due aspetti ideali e concreti si possono realizzare tramite una non banale riflessione su come lavorare con il passato nei musei, nelle mostre, nei parchi storici ed archeologici, negli archivi, nelle biblioteche, con le rievocazioni e con le commemorazioni, nonché con tutti i media»[2].

Da questa definizione non è difficile immaginare l’importanza della Public History per la società attuale dove lo storico potrebbe essere utilmente coinvolto in numerose mansioni di elevata rilevanza sociale. Il bisogno di storia, sempre presente, è cresciuto enormemente negli ultimi tempi, in particolare con la diffusione di internet, che ha in un certo senso portato via il posto allo storico accademico, dando maggiore spazio a piccoli gruppi, associazioni o singoli, i quali spesso pretendono di operare un’efficace ricostruzione della storia nel tentativo di legittimare le proprie convinzioni[3]. È in questo ambiente delicato che emerge il ruolo del Public Historian, colui che si fa carico del compito di condividere metodi della disciplina all’interno della società. Un lavoro che richiede un certo tipo di formazione, sicuramente di natura accademica, ma che, all’atto pratico, esce al di fuori dei ruoli tradizionali (insegnante, ricercatore, studioso). Il Public Historian si muove all’interno di un mercato vasto e variegato: amministrazione pubblica, musei, comunità locali, cinematografia, media, politica etc… pertanto, è necessario che le sue competenze siano adeguate allo spazio in cui decide di investire il proprio lavoro e le proprie risorse[4]. Tali circostanze implicano quindi che per il Public Historian «la strada da perseguire è quella di un costante aggiornamento professionale, non soltanto per recepire i risultati più nuovi della ricerca scientifica, ma soprattutto per tenere il ritmo dell’evoluzione delle forme di narrazione e di disseminazione capaci di incidere davvero sulla conoscenza diffusa della storia»[5].

Serge Noiret, Esperto in Public History, ha conseguito un PhD in History and Civilization nel 1985 presso l’European University Institute di Firenze. Attualmente è un History Information Specialist presso l’EUI Library di Firenze per sostenere le attività accademiche del dipartimento di History and Civilization.

Responsabilità e deontologia del Public Historian

Data la crescente importanza che la storia, declinata come Public History, può acquisire nei diversi campi della sfera pubblica, è emersa spontanea la preoccupazione di molti storici per la redazione di una sorta di regolamentazione, di una serie di linee guida a cui tutti gli storici possano fare riferimento o, meglio, sulle quali confrontarsi. Un primissimo passo verso la creazione di un codice etico che abbracciasse tutti i campi della storia si ebbe ad opera dell’American Association of Museums (AAM)[6] nel 1925 con il Code of Ethics For Museum Workers. Questo codice fu il primo a essere utilizzato a livello nazionale negli Stati Uniti e si incentrava su tre punti fondamentali:

  1. devozione alla causa che serve;
  2. fede negli scopi altruistici dei suoi colleghi;
  3. onore basato su un forte senso della giustizia come principale movente dei suoi pensieri e delle sue azioni.

Dopodiché venivano presentati ulteriori chiarimenti sulla condotta da seguire in base al proprio ruolo e i diversi casi, con i seguenti titoli:

  1. attinenze dei musei verso il pubblico;
  2. rapporti tra i musei;
  3. attinenze del direttore verso gli amministratori fiduciari;
  4. attinenze del direttore verso lo staff;
  5. attinenze dello staff verso il direttore;
  6. rapporti tra i membri dello staff[7].

Ciascuno di questi brevi elaborati si concentrava su degli aspetti chiave che i lavoratori dovevano rispettare, come ad esempio la cortesia o il buon servizio dello staff verso il pubblico, oppure la lealtà, autorità, responsabilità e imparzialità del direttore verso il proprio staff e il pubblico[8]. Successivamente, da parte dell’Oral History Association nel 1968, furono elaborate una serie di regole che portarono a importanti dibattiti, che culminarono in una famosa conferenza a Wingspread nel luglio del 1979[9].

Da tale conferenza vennero chiaramente delineati i principi secondo cui, almeno gli storici della tradizione orale, avrebbero dovuto condurre il proprio lavoro. Tali principi si dividono in diverse linee guida per intervistatori, intervistati e persino enti promotori. Nel merito degli intervistati affermavano:

  • l’intervistato dovrebbe essere informato, in generale, circa gli scopi del progetto e delle procedure della storia della tradizione orale e dello specifico progetto per cui si sta contribuendo;
  • in riconoscimento della storia della tradizione orale, per una migliore comprensione del passato, e in riconoscimento dei costi e degli sforzi coinvolti, l’intervistato dovrebbe impegnarsi a fornire informazioni sincere e di valore durevole;
  • l’intervistato dovrebbe essere consapevole dei reciproci diritti che fanno parte della storia della tradizione orale, come privilegi di sigillo e pubblicazione, diritti letterari, di relazioni di fiducia, sulla decisione di disporre il verbale in tutte le sue forme e sulla portata del suo uso e divulgazione;
  • preferenze della persona intervistata e altri accordi fatti preventivamente dovrebbero governare la condotta di questo processo della storia della tradizione orale, e tali preferenze e accordi dovrebbero essere attentamente documentati per il verbale.

Per quanto concerne l’intervistatore, invece, si sancisce che:

  • dovrebbe garantire protezione contro possibili lesioni sociali o sfruttamenti dell’intervistato e dovrebbe condurre l’intervista nel rispetto della dignità umana;
  • ciascun intervistato deve essere selezionato sulla base di potenziale dimostrabile nel poter fornire informazioni di valore durevole;
  • dovrebbe impegnarsi nell’incoraggiare un dialogo informativo attraverso domande perspicaci e stimolanti, che si basano sulle esperienze pregresse dell’intervistato e, se possibile, dovrebbe revisionare le fonti in riferimento all’intervistato prima dell’intervista;
  • dovrebbe estendere l’indagine al di là dei propri bisogni per rendere l’intervista il più completa possibile e utile per gli altri, e dovrebbe, ove possibile, collocare il materiale in un deposito al fine di renderlo accessibile per qualsiasi ricerca;
  • dovrebbe informare l’intervistato circa gli scopi del progetto, delle procedure e di sviluppare reciproche aspettative dei diritti, come privilegi di sigillo e pubblicazione, diritti letterari, di relazioni di fiducia, diritti sull’eventuale decisione di disporre il verbale in tutte le sue forme e sulla portata del suo uso e divulgazione;
  • le interviste dovrebbero essere condotte con spirito oggettivo, onestà e integrità, e nel mantenimento delle intese comuni, degli scopi e delle disposizioni accordate tra le parti;
  • non deve violare e tutelerà il sigillo su qualsiasi informazione considerata confidenziale da parte dell'intervistato, che sia stato riportato nel verbale o meno.

Infine, per quanto riguarda gli enti promotori:

  • soggetta a condizioni prescritte dall’intervistato, è obbligo degli enti promotori (o dei collezionisti individuali) preparare e preservare verbali facilmente utilizzabili; di conservare note sensibili sulla creazione e procedimento di ciascuna intervista; di identificare, indicizzare e catalogare le interviste; e, quando disponibile per la ricerca, di rendere nota la loro esistenza;
  • gli intervistatori dovrebbero essere scelti sulla base della loro competenza professione e sulla capacità d’intervista; gli intervistatori dovrebbero essere accoppiati con gli intervistati attentamente;
  • gli enti dovrebbero rendere consapevoli sia gli intervistatori sia gli intervistati dell’importanza del rispetto delle suddette linee guida ai fini di un uso e di una produzione di successo di fonti della storia della tradizione orale[10].

Come si vede sono regole molto stringenti ma che si applicano a un ambito anche molto specifico della pratica storica, quello appunto della storia orale, quindi non facilmente estendibili ad altri settori. Parallelamente ci furono quindi anche altre associazioni nel settore delle ricerche storiche che cominciarono ad adottare delle regolamentazioni molto severe. È il caso, ad esempio, della Society of Professional Archaeologists (SOPA), che prese una posizione molto decisa per quanto riguarda l’etica del lavoro. Fondata nel 1976 per assicurarsi l’accesso di solo personale qualificato, la società stilò l’elenco degli archeologi che - a suo giudizio - presentavano i requisiti richiesti, sia nel campo dell’esperienza che dell’educazione, e che erano disposti a seguire il loro codice di condotta e di «Standards of Performance»[11]. All’interno di tale codice era persino presente una clausola condizionale che ‘intimava’ tutti i membri della Society of Professional Archaeologists a denunciare qualsivoglia forma di violazione del codice stesso. Una medesima morsa sui propri membri fu applicata anche da parte del California Committee for the Promotion of History (CCPH). Nata nel 1981, la CCPH era molto preoccupata per la mancanza di regole standard per i public historians, i quali, a differenza dei colleghi accademici, si trovavano ad affrontare obblighi e sfide deontologiche peculiari[12]. Da questi esempi si può facilmente capire come confidenzialità, contatto col cliente e gestione di contratti, sono tutti elementi che possono facilmente portare il public historian a considerare interessi personali e quindi anche a incontrare dilemmi etici diversi rispetto al collega accademico, in particolare quando si consideri lavori nel settore della pubblica amministrazione o delle istituzioni di governo. Ad esempio, un public historian assunto in un contesto governativo, ha il dovere di salvaguardare documenti storici e non danneggiare l’agenzia presso cui ha deciso di lavorare; dall’altro lato troviamo però storici accademici che possono richiedere l’accesso a documenti strettamente riservati che potrebbero, in teoria, danneggiare l’ente se pubblicati. Abbiamo un esempio classico di dilemma etico per uno storico al servizio di un ente, tra i suoi compiti istituzionali di riservatezza e metodologia della ricerca storica - che impone il confronto e l’analisi di tutta la documentazione relativa a un fenomeno storico. Nel 1982, alcuni storici chiesero al National Council on Public History di indagare sull’eventuale desiderabilità di un ‘Codice Etico’ [13]. La richiesta fu prontamente accettata e furono proprio i docenti i primi a essere coinvolti, proprio perché erano loro a dover guidare gli studenti verso l’applicazione pubblica della storia. Dato che da questo coinvolgimento nacquero molte discussioni che portarono alla luce diverse questioni etiche per tutti storici, il National Council on Public History decise di istituire un comitato che incoraggiasse la discussione deontologica, allestendo successivamente pannelli su questo tema durante alcune conferenze. Fondamentale, nel 1985, l’approvazione del National Council on Public History di un documento sulle linee guida deontologiche per gli storici, che riconobbe a tutti gli effetti le similarità delle questioni etiche tra public historian e accademici. Il documento comunque non pretendeva di sovrascrivere o toccare argomenti trattati da codici etici preesistenti per archivisti, curatori o storici della tradizione orale[14]. Erano perlopiù dei principi generali di giusta condotta per ricercatori e professionisti.

Dal 1978 un periodico promosso dal National Council on Public History («The Public Historian»)[15] offre un aggiornamento costante sulle problematiche che emergono in questo campo; lo fa offrendo:

  • ricerche originali, casi di studio e discussioni approfondite sui principali problemi di natura teorica, applicativa ed etica;
  • interviste speciali con esperti o pionieri del campo;
  • recensioni su pubblicazioni critiche, in particolare sulla letteratura grigia;
  • sezioni di revisioni speciali che si concentrano su film storici, media e video[16].


Finora si è parlato solamente in ottica generale della deontologia, non solo del public historian ma di tutti gli storici, e di come questa sia stata oggetto di dibattito e costante trasformazione negli ultimi decenni. Pertanto, è adesso necessario rendere più chiara l’idea dei principali casi in cui si possono configurare una serie di questione etiche per il public historian.

La strumentalizzazione

Tra gli esempi più importanti di un uso improprio della storia da parte del public historian, vi è quello della manipolazione e strumentalizzazione, ad esempio per fini di matrice politica o ideologica. Data la gravità e le conseguenze che possono nascere da un uso strumentale del passato, appare e comprensibile l’urgenza, dall’inizio degli anni Settanta, di elaborare regole di condotta rigide, che tutelassero non solo la dignità di tutti gli storici e della loro professione, ma anche la pace sociale. Le comunità, i gruppi, le associazioni che compongono la società civile è immediatamente e direttamente influenzata dal lavoro dei public historian e non ha a differenza degli storici accademici, almeno secondo Theodore J. Karamanski «il lusso di tirar fuori mezze ipotesi e vedere come se la cavano in dibattiti professionali»[17]. È proprio sulla base di questa consapevolezza che l’aderenza a un’etica è molto più importante per i public historian rispetto agli storici tradizionali [18]. Come fa giustamente notare Serge Noiret, «ogni paese e ogni individuo si avvicinano alla Public History diversamente»[19], e nel merito del contesto italiano espone quelli che sono stati i primi segnali dell’affermarsi della public history:

«La professione di storico si è consolidata in Italia nel processo di costruzione e stabilizzazione dello stato nazionale come in altri paesi quando si sono creati archivi, biblioteche e musei nazionali»[20]

Tuttavia, questo processo non portò subito a una chiara configurazione della public history, fu solo durante gli anni Novanta che alcuni storici italiani, tra cui Nicola Gallerano, cominciarono a ipotizzare un’“uso pubblico della storia”, ovvero, quando politici e giornalisti imposero una visione ‘revisionista’ del passato e della memoria collettiva della repubblica, con lo scopo di sostenere le proprie idee politiche. Questa nuova prospettiva caratterizzò musei, mostre a carattere storico, siti del patrimonio culturale o luoghi di memoria come strade, monumenti, statue e portò persino alla creazione persino un nuovo calendario civile di feste. Tutti questi elementi modellarono il modo del vedere il proprio passato delle diverse comunità nazionali in Italia e in Europa, in particolare dal dopoguerra in poi. Pertanto, è evidente che in Italia «la lotta pubblica per il controllo della memoria collettiva è in gran parte basata su pratiche di Public History»[21]. La memoria è quindi un tema fondamentale per la public history, e una sua manipolazione strumentale nasce spesso per questioni di natura politica. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, in Italia, c’è sempre stata molta preoccupazione su chi potesse imporre un certo tipo narrazione storica al pubblico, questo perché, come afferma sempre Serge Noiret:

«La memoria è dunque un campo di battaglia sociale in un paese che non ha mai voluto riconoscere come evidenza accettata da tutti il fatto che Mussolini e il fascismo erano alleati dei tedeschi e del nazionalsocialismo durante la Seconda guerra mondiale. Combattere per controllare le memorie civiche, nazionali ed europee, è una questione importante per la Public History in Italia. L’uso politico e strumentale del passato ha forti radici nel sistema partitico, in particolare per quanto riguarda la memoria della Seconda guerra mondiale, della Resistenza e della guerra civile tra il 1943 e il 1945»[22].

E volgendo lo sguardo verso il presente, dichiara inoltre come i fascisti - oggi postfascisti – condividono, e alimentano, un ricordo contraddittorio di quegli eventi, dimenticando o non accettando i motivi che hanno causato la guerra, ovvero i fascismi europei, senza neanche considerare le atrocità commesse a causa di quelle ideologie. Molte persone rivendicano ancora l’appartenenza a quella cultura e alla storia del ventennio, persino alcuni ministri che erano ex-militanti della Repubblica sociale negli esecutivi di Berlusconi dopo il 1994. Si tratta delle memorie di quelli che persero la Seconda guerra mondiale al fianco dei nazisti. Questi sfruttarono un singolo evento molto drammatico, l’assassinio di almeno tremila persone nelle foibe, promuovendolo come ‘genocidio degli italiani’, senza tener conto degli studi storici che definiscono, in primis, il termine di genocidio a livello globale, né considerando il contesto storico che ha portato a quel tragico momento, legato alla storia del regime fascista. In onore di questi tremila italiani uccisi dai partigiani jugoslavi nel 1943 in Istria e nel 1945 nella Venezia Giulia venne introdotta, nel 2004, una data commemorativa nel calendario civile italiano, una Giornata del ricordo, che intende conservare la memoria di questa triste vicenda. Per quanto sia giusto e legittimo mantenere e preservare il ricordo di questo evento che fa parte di una memoria collettiva dei traumi subiti dalla popolazione italiana durante la seconda guerra, il problema è che tale episodio è stato largamente utilizzato a sostegno di una propaganda nazionalista e populista che ha la tendenza a mettere sullo stesso piano due commemorazioni distinte[23]:

  • il Giorno del Ricordo collegato alla tragedia delle foibe, diventando anche un sito fisico, vero e proprio luogo di memoria;
  • il Giorno della Memoria del 27 gennaio legato alla commemorazione, da parte di tutta l’Europa, del ricordo dell’Olocausto e del genocidio di milioni di ebrei e altre minoranze.

Queste ricorrenze non possono essere storicamente equiparate tra loro, e, come giustamente mette in evidenza Serge Noiret:

«Chi vuole parlare di due genocidi lo fa in modo strumentale, ignorando le numerose ricerche storiche prodotte negli ultimi anni che contestualizzano entrambi gli eventi. Quello che è successo nelle foibe a causa dei comunisti jugoslavi non è un genocidio, ma un omicidio di massa come molti altri omicidi di massa perpetrati durante la seconda guerra mondiale»[24].

Arrivati a questo punto è abbastanza chiaro il peso che una strumentalizzazione di tale portata può avere sugli individui. Proprio per questi motivi il public historian dovrebbe sempre trovarsi a partecipare pubblicamente e in prima linea alle discussioni su temi così importanti e sensibili, cercando anche di essere il più imparziale possibile e, laddove sia presente un pregiudizio di qualche tipo, di riferirlo e tenerlo in considerazione per ottenere una rappresentazione più onesta e autentica possibile del passato.

Loška Dolina, Slovenia meridionale, il 31 luglio 1942. Soldati italiani fucilano Franc Žnidaršič, Janez Kranjc, Franc Škerbec, Feliks Žnidaršič ed Edvard Škerbec, cinque abitanti del villaggio di Dane presi in ostaggio qualche giorno prima. Nell’Italia degli ultimi anni, un’interpretazione frettolosa e “capovolta” di questa foto ne ha innescato la proliferazione virale in rete e sui giornali, sino a farne l’illustrazione per eccellenza di articoli sulle foibe e le vittime italiane della “violenza slava”. (Raccolta fotografica del Muzej novejše zgodovine Slovenije (Museo nazionale di storia contemporanea a Lubiana) - Numero d'archivio pl1818)[25]

Errori e cattive interpretazioni

È bene ricordare che tutti gli storici, sia i public historian che gli accademici, possono commettere errori, mancare di lucidità, interpretare nella maniera corretta o dare troppo spazio alla propria soggettività durante l’esercizio di ricostruzione della storia. A titolo esemplificativo riportiamo qui la vicenda di David Abraham, docente di giurisprudenza alla University of Miami School of Law e autore del libro The Collapse of the Weimar Republic, che suscitò enormi polemiche dopo la sua pubblicazione. L’opera è un’analisi strutturale sul ruolo che hanno avuto capitale e lavoro nella crisi della Germania Repubblicana e tutte le tesi presenti all’interno del libro sono state aspramente criticate come una serie di fraintendimenti, errori o addirittura invenzioni da parte di Abraham. In particolare, i docenti Henry Turner e Gerald Feldman dichiaravano che questo problema avesse compromesso la vera natura della ricerca storica[26]. In seguito, venne pubblicata una seconda edizione del libro di Abraham che aveva come contenuto aggiuntivo una prefazione e delle note a piè pagina dove si ammettevano gli errori commessi durante la prima stesura e si dichiarava che non ci fosse stato, da parte sua, alcun intento ingannevole, né che i suoi errori siano stati frutto di limiti nati da ignoranza o inesperienza. Tuttavia, gran parte del discorso della prefazione sembrava quasi ‘tutelare’ il lavoro che aveva svolto, mentre il resto del libro, anche se si trattava di una seconda edizione, era uguale alla prima.

Feldman identificò i diversi problemi all’interno del testo che si possono riassumere nel seguente elenco:

  • sbagli di identificazione;
  • aggiunta di parole inventate all’interno delle citazioni;
  • aggiunta di interpretazioni che acquisiscono senso proprio per via di queste parole inventate;
  • spesso, poiché Abraham non riporta i riferimenti completi, mancano le date, il che viene considerato da Feldman come una mancanza di sensibilità e di interesse nei confronti di ciò che è effettivamente accaduto in passato;
  • uso sbagliato dei documenti;
  • tendenza a rappresentare l’industria nel ruolo del ‘cattivo’, sopravvalutando il suo potere.

Tutti questi errori rappresentavano, secondo le parole di Feldman, una chiara «violazione delle norme standard della nostra professione»[27] e queste visioni critiche sull’operato di Abraham danneggiarono molto la sua immagine, a tal punto che il problema originale, ovvero la ricostruzione onesta e oggettiva del passato, passò in secondo piano, lasciando spazio a un virulento accanimento e indignazione morale nei suoi confronti.

Conclusioni

Possiamo dire che l’eticità dello storico in genere - a prescindere dal rapporto col pubblico - sia riconducibile a fare bene il suo lavoro, ossia ad applicare con rigore il metodo storico. In aggiunta a questa “professionalità di base” il public historian deve essere maggiormente consapevole dell’influenza che può esercitare sulla società. Applicando pratiche che mirano appunto a far partecipare i non professionisti alla narrazione storica deve aver chiaro il ventaglio dei rischi possibili e un codice etico appare che salvaguardi individui e gruppi da distorsioni e fraintendimenti del passato.


Bibliografia e sitografia

  1. SALVATORI, Enrica, Il public historian e il revival quale ruolo?, in DEI, Fabio, DI PASQUALE, Caterina (a cura di), Rievocare il passato: memoria culturale e identità territoriali, Pisa, PUP, 2017, pp. 131-138.
  2. «Intervista a Serge Noiret, La Public History: una storia col PH maiuscolo», in Clionet. Per un senso del tempo e dei luoghi, 4/2020, URL: < https://rivista.clionet.it/vol4/intervista/noiret-la-public-history-una-storia-col-ph-maiuscolo > [consultato il 14 agosto 2021].
  3. COLAZZO, Salvatore, «Public History e Pedagogia di Comunità: sulla possibilità di una convergenza», in Sapere pedagogico e Pratiche educative, 3/2019, pp. 23-37.
  4. SALVATORI, Enrica, op. cit.
  5. COLOMBI, Valentina, «Public historians: la storia è un mestiere del futuro?», in Fondazione Feltrinelli, 14 giugno 2017, URL: < https://fondazionefeltrinelli.it/public-historians-la-storia-e-un-mestiere-del-futuro/ > [consultato il 14 agosto 2021].
  6. KARAMANSKI, Theodore J., «Ethics and Public History: An Introduction», in The Public Historian, 8, 1/1986, pp. 5–12.
  7. «CODE OF ETHICS FOR MUSEUM WORKERS», in The American Magazine of Art, 16, 10/1925, p. 555
  8. «Code of Ethics for Museum Workers», in The American Association of Museums (AAM), 1925, URL: < http://ethics.iit.edu/codes/AAMu%201925.pdf > [consultato il 14 agosto 2021].
  9. KARAMANSKI, Theodore J., «Ethics and Public History: An Introduction», in The Public Historian, 8, 1/1986, pp. 5–12.
  10. «Oral History Evaluation Guidelines: The Wingspread Conference», in The Oral History Review, 8, 1980, pp. 6–19.
  11. KARAMANSKI, Theodore J., «Ethics and Public History...», cit.
  12. Ibidem.
  13. Ibidem.
  14. Ibidem.
  15. The Public Historian, About the Journal, URL: < https://online.ucpress.edu/tph > [consultato il 14 agosto 2021].
  16. National Council on Public History, The Public Historian, URL: < https://ncph.org/publications-resources/publications/the-public-historian/ > [consultato il 14 agosto 2021].
  17. KARAMANSKI, Theodore J., «Reflections on Ethics and the Historical Profession», in The Public Historian, 21, 3/1999, pp. 127–133.
  18. Ibidem.
  19. Intervista a Serge Noiret, op. cit.
  20. Ibidem.
  21. Ibidem.
  22. Ibidem.
  23. Ibidem.
  24. Ibidem.
  25. Nicoletta Bourbaki, gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico, «La storia intorno alle foibe», in Internazionale, 10 febbraio 2017, URL: < https://www.internazionale.it/notizie/nicoletta-bourbaki/2017/02/10/foibe > [consultato il 14 agosto 2021].
  26. KARAMANSKI, Theodore J., «Ethics and Public History...», cit.
  27. FELDMAN, Gerald D., «A Collapse in Weimar Scholarship», in Central European History, 17, 2/3, 1984, pp. 159–177.



Citazione di questo articolo
Come citare: FERRARO, Alfonso . "Il codice etico del Public Historian". In: CLIOMATICA - Portale di Storia Digitale e ricerca. Disponibile in: http://lhs.unb.br/cliomatica/index.php/Il_codice_etico_del_Public_Historian. il giorno: 29/06/2024.






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